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Il cattolicesimo della torta

Oggi desideriamo parlare di un cattolicesimo culinario. Un teologo, recentemente ha scritto un piccolo libretto dal titolo: “Gesù cuoco”1. Secondo il Vangelo, Gesù amava stare a tavola con la gente. Era anche capace di far da mangiare: infatti si presentava come il “buon pastore”, colui che dà il “pasto buono”. Cosa ci insegna questa caratteristica (quasi ignorata) del Figlio di Dio? Un fatto molto concreto: cucinare non significa soltanto dare del cibo, ma soprattutto prendersi cura di ciascuno secondo i suoi bisogni. Partiamo da questo contributo che è stato definito “chef-teologia” dal sapore delicato, che nutre in profondità quanti hanno fame di senso e di vita. Se diamo un occhio ai Vangeli, troviamo diversi materie prime: lievito e farina, ortaggi e agnello, pesce alla brace, il sale da per condire le pietanze. Gesù sapeva cucinare. Ma non possiamo fermarci qui. Cristo non ha solo “preparato qualcosa da mangiare” ma ha detto chiaramente «Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via» (Gv 14,2-4). Gesù per spiegare le caratteristiche del posto che attende ciascuno di noi (e speriamo sia un posto fisso!), ricorre alla parabola del banchetto nuziale: «Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire» (Mt 22,2-3). Nostro Signore, con buona pace di Alessandro Borghese, sembra essere molto esperto in fatto di cibo e ristorazione, dato che questa vita altro non è, che una grande preparazione a quel banchetto finale di cui parlano i Vangeli. Quando Gesù ci invita al banchetto, non si riduce a presentare in tavola una pietanza ordinata in tutta fretta su Just eat, nemmeno scalda al microonde un piatto precotto. Nonostante le grandi abilità e la grande attenzione nella scelta della materie prime, non solo sarebbe capace di preparare un ottimo pasto. Il cuoco Gesù presenta in tavola se stesso. È Lui la portata principale. Egli costituisce un pasto completo, dall’antipasto fino al dolce, ammazza caffè compreso. Cristo è un cuoco “speciale”, non si limita a dare qualcosa da mangiare, a scrivere libri di ricette, ma ci dice a chiare lettere: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51).

Capite perché Gesù di Nazaret è un cuoco unico? È Lui il cibo che da sempre l’uomo attende, non solo per riempire la pancia (anche se il corpo ha le sue necessità, il cattolico non può sposare lo spiritualismo!), è Lui la ricetta per trovare il senso e il significato ultimo dell’esistenza e anche del nostro mangiare quotidiano. Il bisogno fondamentale di alimentarci, deve indurci certamente a curare la nostra alimentazione per sostenere il corpo, ma allo stesso tempo aprirci al Bisogno, al Fondamento, a Dio. Sovente nelle cerimonie, o cene importanti, viene richiesto da parte di colui che organizza il banchetto un outfit particolare. Anche Dio fa una richiesta di questo tipo: ci chiede l’abito nuziale. È un abito che non possiamo “confezionare” autonomamente, il tempo della vita ci consente di preparare l’abito nuziale. È solo esteriore? No, è un habitus. Il vestito, l’abito nuziale, rimanda all’habitus, verte sulla «portata rivelativa del vestito in rapporto all’identità del cristiano», che la Chiesa ha colto fin dalle origini e l’ha custodita nella liturgia battesimale con il simbolo della vesta bianca. Infatti «essa non ha tanto una funzione didascalica, quanto piuttosto performativa in ordine all’efficacia sacramentale e all’esperienza della grazia». Tra l’ altro, svestirsi e rivestirsi, è tipico anche dei monaci.

In SanTommaso (STh I-II, 49-70), secondo uno studio di Santiago Maria Ramirez, il verbo habere non deriva solo habitus nel doppio senso di vestito e di abitudine, ma anche habitio (l’avere), habitatio e habitaculum (abitazione), habitudo (costituzione del corpo e relazione) nonché habilitas (attitudine, disposizione e abilità). Secondo Tommaso la questione dell’habitus, farebbe parte dei «principi intrinseci dell’azione»; da qui l’importanza della trattazione dell’abito, ritenuta da Tommaso necessaria per una corretta fenomenologia dell’azione.

Tommaso riprende la lezione di Aristotele, secondo il quale, etica deriva più da abitudine, abitare, coabitare, che dalla nozione di norma. L’etica fa si riferimento alla norma, ma in quanto scaturita dall’abitudine di abitare insieme. È etico il comportamento che abitua ad abitare insieme, facendone il proprio costume, il proprio vestito. Per Tommaso, quindi, «l’habitus sarebbe l’esito della ripetizione liberamente decisa di un’azione». Dunque per avere l’abito nuziale richiesto per il banchetto finale, occorre lavorare sull’habitus. Concretamente significa ascoltare il bisogno corporale di nutrirsi e il Bisogno di senso e significato, del Fondamento! Quindi sì al buon cibo, alla buona tavola,

sì al Cibo per antonomasia: Gesù Cristo. Lui è come la “torta”: si prende tutto di Lui.

Riempie la pancia ma salva anche l’anima! Ci umanizza e divinizza. Gesù è Corpo: contiene, per così dire, tutto. Non possiamo prendere solo una parte di Lui. Non accontentiamoci solo di una fetta perché, almeno per una volta, possiamo essere ingordi: possiamo anzi, dobbiamo, prendere tutta la torta. Chi prende solo Gesù ma dimentica la Chiesa Cattolica, si dimentica che la Chiesa secondo la meravigliosa definizione ecclesiologica di Sant’Agostino, è il «Christus totus», perché «il corpo è attaccato al capo» (Discorso 341).

Cristo e Chiesa sono inconcepibili separatamente, possono essere compresi all’interno dell’esperienza credente, solo se considerati assieme, per l’appunto, un solo Corpo. «Il rapporto diretto del credente con Dio e la mediazione della fede da parte della Chiesa gerarchico-sacramentale sono i due lati della stessa medaglia […] Si chiarisce anche la specificità del concetto cattolico di Chiesa. È impostato sul nesso inseparabile tra divinità e umanità in Cristo. Dall’incarnazione consegue anche l’impossibilità di dividere la Chiesa tra comunione di grazie interiore e invisibile e mediazione sacramentale visibile e apostolica»2.

L’esperienza soggettiva dell’esperienza di fede, deve sempre essere informata, orientata e purificata dalla dimensione oggettiva del credere. Non di rado, ci sono teologi e pastori, che hanno trasformato la Sacra Scrittura, la Tradizione e il Magistero (un esempio eclatante con i contenuti dell’ultimo Concilio) in una sorta di “magazzino”, del quale non conoscono nemmeno tutto il materiale ivi contenuto ma dal quale prendono solo quello che pare utile e funzionale a giustificare le proprie personali teorie ed opinioni, tendenzialmente in “rottura” con l’insegnamento della Chiesa. Questi teologi e pastori non danno la “torta” ma solo la “fetta”, perché non hanno accolto tutto l’insegnamento di Gesù e della Chiesa, hanno fatto un’accurata (spesso ideologica) selezione. Dimenticando anche un caldo invito: «date loro voi stessi da mangiare» (Mt 14,16). I pastori e i teologi per diventare come il “Cuoco” della storia, non devono solo ripetere quanto detto da Lui. Si devono coinvolgere, non solo con “le mani in pasta”, ma farsi “impastare da Dio” per divenire un cibo buono per le anime (ma anche per i corpi!). Pastori: prendete tutta la “torta” perché Cristo è la totalità. E voi fedeli: nutritevi di cattolicesimo: è la “Torta”.

1 G. C. Pagazzi, La cucina del Risorto. Gesù «cuoco» per l’umanità affamata, EMI, Verona 2014; Id., Questo è il mio corpo. la grazia del Signore Gesù, EDB, Bologna 2016.

2 G. L. Müller, Il Papa. Ministero e missione, Cantagalli, Siena 2023, 33; Id., Dogmatica cattolica. Per lo studio e la prassi della teolgia, San Paolo, Milano 2013.


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