Articolo tratto dal sito https://coordinamentotoscano.blogspot.com/
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La festa di Cristo Re fu istituita da Pio XI l’11 dicembre 1925 mediante l’enciclica Quas primas. Si trattava di una festa del tutto nuova, priva – al contrario di altre feste, per esempio quella del Sacro Cuore – di precedenti nei calendari locali o religiosi. D’altronde, se nuova era la festa, non nuova era l’idea della regalità attribuita alla figura di Cristo, che non soltanto la Scrittura, i
Padri e i teologi, ma anche l’arte sacra e il senso comune dei fedeli concordemente affermano. Perché il Papa abbia avvertito il bisogno di istituire una ricorrenza specifica dedicata a questo mistero, risulta chiaro dal testo della stessa enciclica: “Se comandiamo che Cristo Re venga venerato da tutti i cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l’umana società”.
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Quale peste?
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Quella – risponde il Papa nel paragrafo successivo – del laicismo: “La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l’impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all’arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell’irreligione e nel disprezzo di Dio stesso”.
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Quindi, se il fine generico della festa – nelle intenzioni del Pontefice – era quello di divulgare nel popolo cristiano “la cognizione della regale dignità di nostro Signore” (regalità in senso lato), il fine specifico era quello di porre l’accento proprio su quella specificazione della regalità che il laicismo nega, vale a dire la regalità sociale. Che sia questo l’autentica ratio della festa, emerge non soltanto dal contenuto dell’enciclica, ma anche da una semplice constatazione di carattere liturgico: tutte le feste, infatti, celebrano – direttamente o indirettamente – la regalità, genericamente intesa, di nostro Signore; ma non esisteva, fino al 1925, alcuna ricorrenza espressamente dedicata al suo regno sulle società di questo mondo.
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Tale conclusione è confermata dall’indole dei testi liturgici della festa, promulgati dalla S. Congregazione dei Riti il 12 dicembre dello stesso anno.
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Nel Breviario, l’inno dei Vespri afferma:
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“Te nationum praesides
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Honore tollant publico,
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Colant magistri, iudices,
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Leges et artes exprimant.
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Submissa regum fulgeant
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Tibi dicata insignia:
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Mitique sceptro patriam
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Domosque subde civium”
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(traduzione nostra: “Te i governanti delle nazioni esaltino con pubblici onori, Te onorino i maestri, i giudici, Te esprimano le leggi e le arti. Risplendano, a Te dedicate e sottomesse, le insegne dei re: sottometti al tuo mite scettro la patria e le dimore dei cittadini”).
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Nell’inno del Mattutino si legge:
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“Cui iure sceptrum gentium
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Pater supremum credidit”
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(“A Te [Redentore] il Padre ha consegnato, per diritto, lo scettro dei popoli”).
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E ancora:
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“Iesu, tibi sit gloria, qui sceptra mundi temperas”
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(“A Te, o Gesù, sia gloria, che regoli gli scettri [= le autorità] del mondo”).
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Stessi concetti ribaditi dall’inno delle Lodi:
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“O ter beata civitas
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Cui rite Christus imperat,
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Quae iussa pergit exsequi
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Edicta mundo caelitus!”
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(“O tre volte beata la società, cui Cristo legittimamente comanda, che esegue gli ordini che il cielo ha impartito al mondo!”).
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Così pure nell’orazione, dove Cristo viene definito “universorum Rege” (non Re di un generico e imprecisato universo, come afferma la nuova liturgia nelle traduzioni volgari, ma Re di tutti, ossia di tutti gli uomini), si dice che il Padre ha voluto in lui instaurare ogni cosa (ivi compreso l’ordinamento sociale), e si auspica che “cunctae familiae gentium” (diremmo, in linguaggio moderno, “ogni società umana”) si sottomettano al suo soavissimo impero.
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Dei testi della Messa, ci limiteremo a ricordare le letture scritturistiche. Nell’epistola, S. Paolo insegna l’assoluta e completa dipendenza di ogni cosa, nessuna esclusa, da Cristo “in omnibus primatum tenens” (Col. 1, 18).
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Dal Vangelo, poi, apprendiamo che il regno del Signore dev’essere inteso non solo in senso trascendente (regalità spirituale) ma anche immanente (regalità temporale o sociale). Quando infatti Pilato pone a Gesù la fondamentale domanda: “Ergo rex es tu?” si riferisce senza dubbio al concetto di regalità che egli, come romano e come pagano, possedeva, vale a dire al regno su questo mondo.
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