Introduzione
Se dovessi chiedervi: qual è il tema centrale del Signore degli Anelli? Qualcuno mi direbbe la lotta tra il bene e il male, qualcun altro la natura, altri ancora la guerra…Tutte cose giuste. Verlyn Flieger, la più grande esegeta tolkieniana insieme a Tom Shippey, nel suo meraviglioso saggio “Schegge di luce”, ci dice: “Il Signore Degli Anelli è una narrazione complessa e stratificata, che copre molti temi e un vasto campo di azioni”1.
Ma in realtà c’è un tema chiave nel Signore degli Anelli e nelle sue opere, lo stesso Tolkien ce lo dice. Nella lettera n. 186 scrive “Il vero tema per me riguarda qualcosa di molto più permanente e difficile: morte e immortalità; il mistero dell’amore per il mondo nei cuori di una razza “destinata” a lasciarlo e, apparentemente, a perderlo; l’angoscia nei cuori di una razza “destinata” a non lasciarlo finché tutta la sua storia suscitata dal male non si sia completata.”
In un’intervista del 1968 alla BBC, che si può trovare anche su youtube (https://www.youtube.com/watch?v=bYfxhCICBLs), Tolkien ci dice che il tema centrale del romanzo è la morte. Sempre in tale intervista, Tolkien riporta una citazione di Simone De Beauvoir in un articolo di giornale, e cita così: “Non esiste una morte naturale; perché di ciò che accade a un essere umano mai nulla è naturale, poiché la sua presenza mette in discussione tutto il mondo. Tutti gli uomini devono morire, ma per ogni uomo la propria morte è un caso fortuito, anche se la conosce e vi acconsente, un’indebita violazione.” Tolkien prosegue dicendo: “potete essere o non essere d’accordo, ma questo è il tema centrale del Signore degli Anelli.”
Il tema centrale per il cattolico Tolkien è la morte; e leggendo il suo legendarium vi assicuro che è così.
L’immortalità degli elfi
Morte per gli uomini e l’immortalità per gli elfi. Nell’ultimo articolo scrissi che Eru Ilúvatar diede agli elfi la caratteristica dell’immortalità. Tolkien rese credibile il suo mondo secondario. Nel decimo volume della History of the Middle – Earth (ancora inedito in Italia) vi è contenuto un saggio dal titolo “Laws and customs among the Eldar” che spiega:
Il loro hröa (lingua elfica Quenya che significa corpo) moriva se uccisi o consumati dal dolore, mentre il fëa (spirito) tornava nelle aule di Mandos (che è un Valar) o il loro hröa poteva addirittura svanire se non ritornavano a Valinor. Riporto nella raccolta di saggi “La falce spezzata” di studiosi tolkieniani italiani, che trattano l’argomento della morte ed immortalità, la sintesi di Claudio Antonio Testi delle scelte degli elfi del loro fëa.2
- Vanno alla chiamata di Mandos;
- Mandos può trattenere il fëa degli elfi (es: nel caso di Fëanor per i peccati commessi)
- Mandos li fa scegliere:
- o rinascere in figli (poi: ritorno nel corpo fatto da Manwë, il più alto di tutti i Valar);
- o restare da Mandos;
- o tornare nel corpo (si veda il caso di Mírel ne “Il Silmarillion”);
- Non rispondono alla chiamata (chiamata senza-dimora) e il loro fëa resta nella terra dei vivi fino alla fine di Arda;
- Svaniscono nella Terra di Mezzo e vivono come ombre fino al termine di Arda (i Titubanti);
- Vivere a Valinor senza mai svanire.
Gli elfi vivono le ere di Arda (il mondo) e lo amano; ivi vedono il mutare del mondo. Tentano di fermarlo, di creare regni che assomigliano al reame beato di Valinor. Nel Il Signore degli Anelli questi regni sono a Rivendell (vecchia traduzione Gran Burrone, nella nuova Valforra) e Lothlorien. Quando la compagnia dell’anello esce dal regno elfico per continuare la sua missione, l’unico che si accorge che il tempo si è fermato è Sam: <<“È stranissimo”, mormorò. “La Luna è la stessa della Contea e della Selvalanda, o almeno dovrebbe. Ma o il suo corso è saltato oppure sono io a sbagliare i calcoli. Ricordate, signor Frodo, che quando eravamo sul flet di quell’albero la Luna era calante, una settimana dopo il plenilunio, a occhio e croce. Ieri notte, a una settimana da che siamo in viaggio, ecco spuntare una Luna Nuova sottile come il ritaglio di un’unghia, come se non ci fossimo trattenuti manco un giorno ch’è uno nel paese degli Elfi”>>3 .
Notiamo cosa risponde Legolas, che è l’Elfo della Compagnia: <<“No, il tempo non indugia mai,” disse; “ma mutamento e crescita non sono ovunque uguali. 4Per gli Elfi il mondo è il movimento, un movimento velocissimo e lentissimo allo stesso tempo. Veloce, perché loro cambiano poco, mentre tutto il resto trascorre, che per loro è motivo di dolore. Lento, perché non hanno bisogno di contare gli anni che passano, non per sé comunque. Le stagioni transitorie sono soltanto increspature che sempre si ripetono nel lungo, lunghissimo flusso. Ma sotto il Sole ogni cosa è destinata da ultimo a disfarsi” .>>
Non a caso Tolkien, nella lettera n.154, dice che gli elfi sono degli “imbalsamatori”. Più che immortalità, si dovrebbe parlare di longevità degli elfi, perché il mondo di Arda avrà comunque una fine.
Mortalità degli uomini
Diverso è il destino degli uomini. Nell’Ainulindalë contenuto nel Silmarillion, morivano, come gli elfi, per uccisione. Ma a differenza di questi ultimi, morivano anche di vecchiaia e avevano una vita di breve durata; nella seconda era di Arda i numenoreani (uomini della isola di Númenor) avevano una vita molto più lunga rispetto ad altri uomini mortali, ma alla fine, stanchi del mondo, morivano anche loro. Ma c’è un’altra importante differenza: il fëa degli uomini non rimaneva ad Arda. Quindi dove andava a finire? Solo Ilúvatar lo sapeva e l’autore non ce lo ha mai fatto sapere.
Il dio del legendarium tolkieniano fa ai mortali il dono della possibilità di andare oltre la musica: questo si “concretizza” con la morte e, appunto, con la libertà di andare oltre la musica (due doni che sono un unico dono in realtà). L’irrequietezza (di cui Finrod si avvede chiaramente) è una conseguenza di questi due doni. L’uomo potrà trovare piena soddisfazione solo fuori dalle cerchie del mondo, attraverso cosa? La morte.
E gli Eldar (elfi), i primogeniti, provarono invidia per la morte dei secondogeniti, gli Atani (uomini). Ma grazie all’inganno dell’oscuro signore, gli uomini desideravano essere come gli elfi, immortali (lo vedremo nel punto 4, il punto di vista degli uomini). Ho accennato prima ai numenoreani: sono un chiaro esempio di questo desiderio di una vita senza fine. Sono un grande popolo, esseri alti, belli e sapienti, come gli elfi. Sono grandi navigatori, possono navigare dove vogliono, ma i Valar vietano loro di navigare fino a Valinor. All’inizio obbediscono, ma col tempo il loro desidero di navigare verso il paese beato cresce sempre di più. Perché? Perché a Valinor vi è l’immortalità, e i numenoreani volevano sfuggire la morte. Sarà Sauron che completerà la disfatta di Númenor facendogli credere che il vero signore era Melkor/Morgoth, creando un proprio culto religioso e di conseguenza portandoli a fare sacrifici umani, bruciando l’albero sacro Nimloth, regalato dai Valar all’inizio della seconda era, e mentendo al re Ar-Pharazôn che ormai la forza di Númenor era talmente grande che potevano infischiarsene del divieto dei Valar e che questi ultimi avevano sottratto agli uomini Valinor per avarizia. Alla fine, quando i numenoreani mettono piede a Valinor, i Valar lasciano che sia Ilúvatar a intervenire inabissando l’isola, cambiando il mondo e infine togliendo Valinor e Tol Eressëa dalla visibilità del mondo: nessuno avrebbe potuto più raggiungerla se non gli elfi che tornavano dalla Terra di Mezzo.
Punti di vista
Il destino ultimo degli Elfi e degli uomini
Tolkien, alla fine degli anni ’50, per rendere la sua narrazione credibile, scrisse un dialogo filosofico di tipo platonico, chiamato “Athrabeth Finrod ah Andreth”, ovvero Finrod, il più saggio tra gli elfi e Andreth ritenuta la più saggia tra gli uomini, contenuto in “Morgoth’s ring”, decimo volume della “History Middle-earth” (ancora inedito in Italia). Come suggerisce Claudio Antonio Testi, Il testo che riporto non deve essere paragonato ad un discorso di teologia rivelata, ma di teologia razionale; e soprattutto Tolkien non deve essere paragonato a un filosofo, ma a un narratore e filologo.
Quello di cui discutono i due personaggi è il senso della morte e del destino ultimo per una razza e per un’altra, dal loro punto di vista. Riporto alcune frasi che mi colpiscono:
– Andreth
“Diverso è per noi: morendo finiamo, e ce ne andiamo senza ritorno. La morte è la fine estrema, un danno irrimediabile; ed è abominevole. Oltretutto un’ingiustizia che ci viene fatta.”
“Credo di capire” disse Finrod “In altre parole stai dicendo che ci sono due morti: l’una è un danno ed una perdita ma non una fine, l’altra è una fine senza rimedio; e che i Quendi patiscono solo la prima?”
“Sì. Ma c’è anche un’altra differenza.” disse Andreth. “Una non è che una ferita casuale tra le possibilità del mondo, che il valoroso, il forte o il fortunato può sperare di evitare. L’altra è la morte ineluttabile; una morte cacciatrice cui alla fine non si sfugge. Per quanto un uomo possa essere forte, o rapido, o coraggioso; che egli sia saggio o che sia sciocco; che sia malvagio, ovvero giusto e misericordioso in ogni sua azione per tutta la vita, che ami il mondo o che lo detesti, egli deve morire e deve lasciarlo. E divenire una carogna che gli altri prontamente nascondono o bruciano5“.
Dopo, Finrod, dice ad Andreth quello che ho notato nel punto 2, il fatto che gli elfi sono longevi e non immortali: “Fin qui, quindi, mi è chiaro che la grande differenza tra Elfi e Uomini sta nella velocità della fine. Solo in questo. Perché se ritieni che per il Quendi non ci sia morte ineluttabile, sbagli. Ora, nessuno di noi conosce il futuro di Arda o quanto a lungo sia stato stabilito che essa debba perdurare, anche se forse i Valar potrebbero saperlo. Tuttavia essa non durerà per sempre. È stata creata da Eru, ma Egli non è in essa. E poiché l’Uno soltanto non ha limiti, Arda e la stessa Eä debbono essere limitate.” […] “Ma la fine verrà. Questo noi lo sappiamo tutti. Ed a quel punto dovremo morire; dovremo perire del tutto, a quanto sembra, poiché apparteniamo ad Arda, in hröa come in fëa. Ed oltre che cosa c’è? “Andarsene senza ritorno”, come dici tu; la “fine estrema, il “danno irrimediabile”?
Cosa credono gli uomini della morte
Andreth reputa che la morte sia una caduta per un peccato commesso in antichità. Riporta un racconto mitico secondo cui gli Uomini avrebbero commesso il “peccato originale”, per l’effetto dell’inganno di Melkor (Morgoth), di aver ceduto alle lusinghe e al culto di quest’ultimo e siano stati puniti con la morte. Infatti Andreth dice così: “Essi sostengono apertamente che gli Uomini non sono per natura di vita breve, ma che tali sono divenuti per la nequizia del Signore dell’Oscurità, del quale non pronunciano il nome.” Finrod invece le puntualizza che non è Morgoth a decidere il destino degli uomini, ma Eru: “Attenta a non dire l’indicibile, di proposito o per ignoranza, confondendo Eru con il Nemico, perché è esattamente quel che costui vorrebbe tu facessi. Il Signore di questo mondo non è lui, ma Colui che lo ha creato, ed il suo reggente è Manwë, il Re Antico di Arda che è benedetto.
No, Andreth, la mente si è oscurata e sconvolta. Sottomettersi, e tuttavia detestare la sottomissione; fuggire senza rifiutarne la causa; amare il corpo ed allo stesso tempo disprezzarlo con lo stesso disgusto che si ha per una carogna: queste sono cose che, sì, possono provenire dal Morgoth. Ma condannare a morte chi in principio era senza morte, di padre in figlio, e tuttavia lasciargli vivo il ricordo d’un’eredità strappata via ed il desiderio di ciò che è andato perduto: il Morgoth potrebbe farlo? No, dico io. Proprio per questo motivo ho detto che se il tuo racconto è vero, allora tutto in Arda è vano, dalla vetta di Oiolossë fino all’abisso più profondo. Perché non credo alla vostra storia. Nessuno avrebbe potuto farlo, salvo l’Uno.”
La fede di Aragorn
Nella mitologia di J.R.R. Tolkien vi è un personaggio che ha fede che l’uomo sia libero oltre i confini del mondo, ed è Aragorn. In punto di morte Arwen è con il suo amato, che come Lúthien è diventata mortale. Ma a differenza della sua antenata, Arwen vive i suoi ultimi giorni in disperazione non accettando la morte, cosa che non fa Aragorn, dicendole prima di lasciare il mondo: “Non cediamo però di fronte alla prova finale, noi che un tempo rinunciammo all’Ombra e all’Anello. Dobbiamo lasciarci con tristezza, ma non con disperazione. Guarda! Noi non siamo eternamente confinati entro i cerchi del mondo e, al di là, c’è più che il ricordo.” 6
Tolkien e la morte
I lettori si chiederanno come mai questo autore abbia messo come tema centrale delle sue opere la morte. Non c’è risposta più facile: ha vissuto dei gravi lutti. Il primo di tutti quello per sua madre, Mabel, morta di diabete quando John aveva 12 anni; non aveva ricevuto cure a causa della sua conversione al cristianesimo. La sua famiglia era anglicana e i Tolkien erano metodisti; entrambe erano famiglie anticattoliche. Per John Tolkien fu un durissimo colpo perdere la madre. Poi partecipò alla prima guerra mondiale dove combatté la battaglia della Somme e perse i suoi più cari amici. Fin dalla sua prima versione de “La caduta di Gondolin” del 1917 si vede che ha vissuto un momento tragico dove ha visto morte e disperazione. Il 22 novembre del 1963 morì un altro suo grande amico, C.S. Lewis, dopo anni nei quali i due non si erano più incontrati. E il 29 novembre del 1971 perse la sua Lúthien, Edith. Si può già intuire come mai nelle sue opere il tema centrale è la morte e immortalità. Non a caso nella lettera n. 195 dichiarava: “Effettivamente io sono un cristiano, e anzi un cattolico, per cui non mi aspetto che la “storia” sia altro che una “lunga disfatta”; anche se contiene (e in una leggenda può contenere in modo più chiaro e toccante) alcuni esempi o intuizioni della vittoria finale”. Da qui si può capire la profondità di questo autore. Per lui il tema della morte è fondamentale per scrivere le fiabe. Non a caso sul suo saggio “sulle fiabe” dichiara: “E infine vi è il desiderio più antico e profondo, quello della Grande Evasione, l’Evasione dalla Morte. Le fiabe procurano un gran numero di esempi e di forme diverse di questo desiderio – che potrebbe essere chiamato il vero spirito evasivo o (direi) fuggitivo. Ma fanno lo stesso altre storie (in particolare quelle di ispirazione scientifica), e fanno lo stesso altri studi. Le fiabe sono realizzate da uomini e non da esseri fatati. E le storie umane sugli elfi sono senza dubbio piene di Evasione dall’Immortalità“7.
Mie riflessioni
Un’altra domanda che si faranno i lettori di Opposto è perché l’autore di questo articolo tratta un tema così profondo e, se vogliamo, opprimente?
Anch’io ho patito un grave lutto nella mia vita: la morte di mio fratello in un tragico incidente. Allora avevo 17 anni, mi resi conto del senso della vita e della morte; è da lì che iniziai ad essere più profondamente cristiano cattolico, perché non potevo e non posso tuttora credere il fatto che la vita sia un caso. Ci deve essere Qualcuno che ci ha creati, altrimenti il fatto che ci siamo ed esistiamo non avrebbe senso. Poi la vita è andata avanti, ma quelle domande di fondo mi sono sempre rimaste. Poi scoprii il professore di Oxford, Tolkien. Leggendolo e approfondendolo, queste domande e riflessioni si sono ridestate ancora di più. Chiunque ami la letteratura, l’arte, la storia, dopo aver letto questo autore non può non interrogarsi sulla vita e sulla morte; e magari desiderare di sapere se c’è un’altra vita dopo questa presente.
Il mondo di oggi
Viviamo in una società dove si tende, non solo ad affossare le domande sulla vita e morte, ma addirittura ad evitarle ed eliminarle. Dirò questo: alcuni potranno non essere d’accordo, ma abbiamo passato anni in cui, per un virus, i governi hanno impedito ai cittadini di uscire dalle proprie case, di andare da qualsiasi parte, incluso visitare i propri cari negli ospedali fino ad impedire una degna sepoltura ai morti. Una cosa mai successa in tutta la storia della civiltà occidentale. Purtroppo queste assurde, quanto inutili, politiche di contenimento hanno provocato gravi danni a livello sociale e psicologico, danni che faranno sentire i loro effetti per lungo tempo.
Addirittura si sente parlare di sperimentazioni per prolungare artificialmente la vita utilizzando l’ibernazione. Vedete dunque che Tolkien, anche se ha vissuto il secolo scorso, ha affrontato argomenti estremamente attuali.
Conclusioni
Quindi per Tolkien la morte non è l’ultima parola. Ci suggerisce acutamente Claudio Antonio Testi: “più la morte è presente nell’orizzonte della nostra vita, più ci si apre a una luminosa e definitiva speranza, mentre più si elimina dall’esistenza la mortalità cercando la longevità perenne più si sprofonda nella buia disperazione“8. Nel primo caso lo vediamo nel personaggio di Aragorn prima di morire, nel secondo nella caduta dei numenoreani.
Quindi che fare?
Tolkien era uno che poneva domande, ma dava poche risposte. A mio giudizio, su questo argomento, dà una chiara risposta tramite il personaggio di Gandalf nel Signore degli Anelli a Frodo, dopo avergli recitato la famosa frase dell’Anello che a me in questi anni ha dato un grande aiuto: “Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato”.9
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Opposto – Che cos’è la Verità?
- (pag 216, Marietti1820, edizione 2024) ↩︎
- Casa editrice Marietti1820, 2009, pag, 21 ↩︎
- SdA “La Compagnia dell’Anello”, ed. Bompiani 2020, pag 571 ↩︎
- SdA ed Bompiani 2020, pag. 571 ↩︎
- (trad. di Gianluca Meluzzi, 2019) ↩︎
- (ed Bompiani, 2020, pag. 488, Appendice A). ↩︎
- (edizione Bompiani “Il medioevo e il fantastico” 2022 pag. 259). ↩︎
- (“La falce spezzata”, casa editrice Marietti 1820, 1°ed. 2009, pag.39) ↩︎
- (SdA ed Bompiani 2020, pag. 83). ↩︎
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